venerdì 9 marzo 2012

Una risposta tra blogger

Di rado butto giù pensieri sulla musica o meglio, di rado cerco di "fare filosofia" della musica, di fare psicanalisi musicale.
Troppo imponente e vasto l'argomento, che nessuno qui vuole finire a fare quei titoli in stile "Focus" con banalità assunte a grandi rivelazioni (quelle cose da "perchè l'uomo assomiglia all'elefante" o "gli alieni esistono: ecco perchè").
Però a volte capitano riflessioni interessanti.
In questo caso tutto parte da "Il pop irrisolto" più che interessante articolo di approfondimento a mano di Francesco Marchesi sulla webzine Kalporz.
Un articolo che, in banali parole, cerca di riflettere su una tematica su cui già ragionavo da tempo e cioè che, al netto degli integralismi, tra classifiche e recensione si nota una tendenza, pur se in mille forme, ad ascoltare pop, anche tra le righe più d'avanguardia.
Non solo, si parla di un certo tratto comune: un pop irrisolto, appunto, vicino alla forma canzone ma disturbato, incerto, in bilico, come se (ma senza esserlo, viene ben specificato) fosse in qualche modo simbolo di un'epoca indecisa e instabile, priva di ideali e piena di segnali di decadenza e in certo modo di pessimismo.


Che in fondo, di pop si parlo spesso (non sempre) è verissimo.
Possiamo prendere James Blake come i Black Keys come i Portishead come Beirut come mille altri: la forma canzone c'è, la voglia di piacere c'è, le tempistiche e la struttura coincidono.
E allora? E allora, intanto, mi viene da dire che quello che "ascoltiamo noi" qualunque cosa voglia dire (ma chi legge ha capito e sa che è un mondo vasto che include generi diverse per simili attitudini) ha voglia di sperimentazione (magari sonora, magari testuale) e di emozione.
Il mondo "alternativo" ha ancora (e credo sempre avrà) quella capacità di essere puro, privo di patinature e produzione fredde che riempe il mondo mainstream.
Insomma: il brano di un qualche giovane uscito da Amici o Xfactor, giovani magari brillanti ma spesso incanalati nell'obiettivo di essere popstar, di saper interpretare altri cantanti del passato (ma perchè mai dovrebbero?) e attorniati da persone, produttori, costumisti che ne plasmano immagini e percorsi discografici, quel brano, si diceva, mai potrà essere (e mai è) delicato come un brano di Dente o emozionante come uno di Brunori Sas.
La Pausini non mai nel segno, al di là dei giudizi, quanto "Una Guerra Fredda" delle Luci della Centrale Elettrica.
Tre elementi citati non a caso, per tornare al pop irrisolto, il vero tema, e questa decandenza che si può ritrovare nei poveri cristi di Brunori, nella disillusione amorosa de L'amore non è Bello di Dente o nei versi glaciali di Vasco Brondi.
C'è davvero questa non compiutezza in ciò che ascoltiamo?
Si, quasi sempre: c'è nella decostruzione malinconica di James Blake, nelle paure dei Radiohead, in quella sensazione di viaggio irrisolto di Beirut o nella intensità di Bon Iver.
Ma in fondo è questo che siamo.
Questa generazione che acclama (giustamente) i suoni cupi ed ossessivi di Burial, che potrebbero essere le strade, i telefoni, i televisori, quell'impianto sonoro di sottofondo della vita in cui si nascondono spesso alienazione o paura per il futuro.
Siamo, si sa, la prima generazione da molto tempo a questa parte che, verosimilmente, vivrà peggio della precedente.
Così, anche il nostro pop, come la vita, è irrisolto, in bilico, spaventato, con momenti (certo) di felicità, altri di malinconia, tendenze elettroniche e escursioni acustiche, amore per il ritorno al passato e voglia di futuro che dobbiamo scrivere e che spesso viene immaginato, anche in musica, come decostruzione del presente e non come evoluzione.
Ma non potrebbe che essere così.

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